lunedì 22 novembre 2004

Se Mi Lasci ti Cancello


L'ultimo film di Gondry dipana il nodo relativo ad una delle fantasie più ricorrenti: cancellare dalla propria vita una relazione sbagliata. Il film che ne esce è carino, garbato, ben costruito. Solo che non ci si capacita di come possa essere considerato una commedia; a tratti offre delle scene di un'angoscia penetrante: Il prologo del film, ad esempio, ci dà un Jim Carrey tristissimo, e una Winslet inquietante.
Comunque (io non volevo andarci, sono stato trascinato più o meno cona la forza bruta) il film vale. Un'ultima nota: Il montaggio mi ha fatto venire la nausea. L'ultima volta mi è capitato con la Trilogia di Star Wars, vista con Beccaccino al Doria, *COMPLETA*. Però eravamo abbastanza drogati. Altri tempi. 

lunedì 15 novembre 2004

2046 - Così fan Tutti


Kar Wai Wong ci regala un film, presentato come il seguito di "In the Mood for Love". Il film è piacevole, articolato e con una galleria di personaggi varia e "pittorica". Realtà e fantasia si inseguono e si spiegano vicendevolmente: il romanzo diventa la realtà dell'io narrante filtrata, e la vita vissuta diventa essa stessa oggetto di narrazione. Bello. Bella l'idea - vagamente Dickiana dell'androide con le emozioni differite. Sembra un'effettiva evoluzione di Rachel in Blade Runner, frutto di un'elaborazione originale e delicata. Sul piano della narrazione "storica", invece, è apprezzabile la prospettiva in cui vengono illustrate le Tigri Asiatiche negli anni sessanta. Hong Kong, Singapore e la Malesia - così come il giappone - sono presenti in personaggi e in (belle) pagine di narrazione, e non con espedienti facili e costosi di fotografia. Come dire, quando  pagine di livello sostituiscono sets miliardari.
Per quanto riguarda invece l'ultimo di Agnès Jaoui, tradotto a cazzo di cane dall'originale "Comme Une Image", si tratta di una pellicola accattivante, ma non destinata a rimanere impressa nella memoria. Le vicende delle famiglie di scrittori sono carine e ben articolate; i personaggi tutti ben ritagliati. Sylvia, l'insegnante di canto interpretata dalla stessa Jaoui mi ha colpito molto, per delle sfumature periferiche del personaggio: sguardo, modo di relazionarsi e uscita finale sembrano denunciare suoi effettivi trascorsi nel mondo che descrive, tanto è attendibile. Quello che manca è una storia avvincente, ma il tipo di cinema - molto francese - è più incline al situazionismo che non allo sviluppo narrativo. Degno di nota l'assistente ex-terrorista bruciato, esilarante in alcune pose. Bravissimi tutti gli attori, e plot scritto molto bene. Il Film scorre, fresco e limpido, ma non rimane. E' nella sua natura.

venerdì 12 novembre 2004

Bestiario Internazionale


E’ dai tempi di Fedro che gli animali offrono spunti di lettura sui comportamenti umani. Dalle aquile dell’antica Roma ai gonfaloni delle città medievali, poi, alcune bestie hanno cominciato a rappresentare intere comunità; il Palio di Siena è paradigmatico in questo senso. Oggi le cose non sono molto cambiate. Orsi, Aquile, Leoni, Lupi e quant’altro sono ben presenti – se non proprio nelle bandiere – almeno nel senso d’appartenenza di diverse popolazioni. Allora l’Orso d’Oro premia il miglior film della rassegna cinematografica a Berlino, riprendendo il simbolo araldico medievale del Länder di Berlino; Il Leone d’Oro fa la stessa cosa a Venezia, rappresentata sin dal medioevo dal Leone di S. Marco; l’aquila (che sia Asburgica, romana o dalla testa bianca) campeggia su tantissimi vessilli, e ricorda altrettante nazioni, tra cui gli U.S.A. E a proposito di questi ultimi, c’è un aneddoto divertente legato all’animale da scegliere per rappresentare il popolo americano. Il Tacchino, e questo a noi fa sorridere, è stato proposto come simbolo degli Stati Uniti d’America nientemeno che da Benjamin Franklin, il quale trovò nel grasso volatile-non-volatile il simbolo degno del popolo americano. Molto meglio dell’aquila dalla testa bianca, la quale, rubando il cibo ad altre specie, stata descritta da Franklin in una lettera alla figlia, un animale dal “cattivo carattere morale”. In più, il tacchino è davvero la forma di vita autoctona per eccellenza del territorio americano. Com’è andata a finire, lo si capisce oggi: il giorno del Thanksgiving, milioni di tavole statunitensi rendono omaggio al grasso e goffo pennuto appiedato, che tanto richiama alla memoria obesi spettatori di reality shows. L’aquila dalla testa bianca è invece cucita sul braccio destro di ogni Top Gun che si rispetti, impressa sul dollaro e su ogni simbolo del potere istituzionale americano. E poi dicono che uomini e animali non si assomigliano….


La “Grande Anima” sbarca in TV


All’inizio, non ci volevo credere. Uno spot commerciale che utilizza l’immagine del Mahatma Gandhi mi sembrava un’offesa gravissima, del tipo un cartellone pubblicitario di maglieria intima con Maria Goretti a fare da testimonial. Poi, quelle parole: lasciate che i vostri cuori battano all’inisono con quello che dico, e penso che allora il mio lavoro sarà concluso. Nel mondo della tv dei nani e delle ballerine, delle televendite e degli indici d’ascolto, è pur sempre un messaggio di spessore. Le parole (che in verità sono appena intelleggibili) sono tratte da un discorso, tenuto a Delhi, conosciuto come One World, con un’obliqua omissione: “If you want give a message to the west, it must a message of love” : nella pubblicità viene taciuto il riferimento all’occidente. La regia dello spot è di Spike Lee, mentre la musica è Sacrifice di Lisa Gerard e Peter Burke. Se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?
La domanda, piuttosto, è: Gandhi televisivo avrebbe avuto senso? Magari invitato da Cucuzza….

Un pensiero per Pietro Paolo Virdis. Che ha aperto a Milano "Il Gusto di Virdis"....


Primo maggio del 1988. Il rombo del San Paolo ottunde i sensi. C’è Gullit, sulla destra, sta accelleranndo. Quando fa così, quello il fondo lo guadagna, non ci piove. Io entro. Mentre sto tagliando in area lo stadio tace. Questo è gol. Lo riconosci subito il pallone che entra, prima di vederlo. Lo senti con il piede, o con la testa. E l’incocciata è di quelle che fanno male, non ammette repliche. Una testata sarda. Garella, con il suo metro e novanta, può farci niente. La rete si gonfia, è Scudetto!

Il calcio piace perché ha tante storie da raccontare, che nel tempo diventano leggenda. Si cominciò a parlare di Pietro Paolo Virdis nel 77’, quando si rifiutò ostinatamente di passare dal Cagliari alla Juve; Tutti i torti non li aveva: i bianconeri avevano Rossi in arrivo dal Lanerossi Vicenza, e Virdis voleva il peso dell’attacco per sè. Ancora meglio, il peso dell’attacco della squadra più vicina alla sua gente. Dopo l’addio di Riva, infatti, gli Isolani cercano il simbolo, l’idolo. Ad ogni modo, la Juve lo prende ugualmente, conducendo trattative estenuanti. “Ovviamente”, ci viene da dire,  Virdis a Torino non rende: Mononucleosi, lesioni al menisco ed infortuni vari lo tengono lontano da uno stato di forma ottimale, e il suo rifiuto tanto ostentato gli verrà spesso rinfacciato.
Quando nel 1980 - dopo tre stagioni altalenanti - viene girato a  Cagliari in prestito per cercarne il recupero, non sarà la stessa cosa: cinque goals in ventidue partite. Ritornerà alla vecchia signora nella stagione 1981-82. Il posto in nazionale per la spedizione spagnola, però, è chiuso da Rossi, Graziani e Altobelli. Sarà il suo ultimo campionato a Torino: il rapporto conflittuale si risolverà con il passaggio dell’attaccante all’Udinese, proprio al termine della sua stagione miglione in bianconero (nove goals in 30 presenze). Qui stenterà nel primo anno, ma farà una soddisfacente seconda stagione: dieci goals in ventinove presenze. Tutto è pronto per il grande salto, che arriva nella stagione 1984-1985, anno dello scudetto “magico” del Verona. In realtà, il Milan – nuovo approdo per la punta Sassarese – è in quegli anni in acque perniciose: Dal 1980 al 1985 la squadra veleggia tra la serie B e la mezza classifica, fino a quando Silvio Berlusconi, nel 1986, fonderà il “Grande Milan”: ma tutto questoVirdis non lo sa, e  si presenta in casa rossonera con nove goals in ventotto partite, nell’anno di esordio di Paolo Maldini (una presenza, a sedici anni). Per i rossoneri, in quell’anno, un magro sesto posto. Ma il cambio di dirigenza non tarda a farsi sentire: nell’86-87, dopo uno spareggio con la Sampdoria, il Milan approda in coppa UEFA, dove viene eliminato al secondo turno dall’Espanyol e, in campionato, Virdis segna (vince il titolo di capocannoniere con 17 reti) e fa segnare. E’ lo squillo di tromba. Quell’anno, passato alla storia per il primo scudetto del Napoli di Maradona, il Milan chiude al quinto posto, ma la formazione è di quelle costruite per vincere. Nel frattempo Michel Platini, “Le Roi”, disputa la sua ultima partita, lasciando una Juventus orfana, e lontana dal titolo per ben sette anni. Si chiude il ciclo della grande Juve degli anni ottanta, e si apre l’ èra di Sacchi. Un calcio spettacolare, veloce e aggressivo, che impone il gioco agli avversari. Gli Olandesi offrono spunto e geometrie, mentre le prodezze dello sfortunato Van Basten, tormentato dalle proprie caviglie, vengono bilanciate dalla rude concretezza tutta isolana di Virdis. Dello scudetto, si è già detto in apertura; la Coppa dei campioni, invece?

La Coppa dei Campioni giocata dal Milan nel 1989 è stata consegnata alla storia per le partite degli ottavi tra Milan e Stella Rossa; a Milano la squadra di Belgrado impose il gioco, portandosi in vantaggio ma facendosi raggiungere dopo appena un minuto: al ritorno, invece, la partita fu sospesa a causa della nebbia sull’1 a 0 per i padroni di casa, in superiorità numerica, un quarto d’ora dopo l’inizio del secondo tempo. Venne rigiocata il giorno dopo, ma il Milan era un’altra squadra. Furono i rossoneri a portarsi in vantaggio, raggiunti  dopo poco da Dragan Stojkovic, che il campionato italiano avrebbe visto in azione (non con molta fortuna, in verità) nelle file dell’Hellas Verona. I supplementari non dissero nulla, ma i rigori decretarono il successo milanista, che sarebbe arrivato alla finale, vincendola.

Quell’edizione della coppa non vide Virdis tra i protagonisti. D’altra parte, le migliori annate del bomber coincisero, per una sfortuna maledetta, a quelle peggiori per il Diavolo. Si è già detto di come vinse il titolo di capocannoniere in un Milan in odore di fallimento. In quel 1989, però, Virdis si distinse – nel bene e nel male -  in due occasioni: guarda un po’ il caso, proprio nelle due partite cruciali con gli Jugoslavi della Stella Rossa. Fu lui a reagire al goal dell’andata, realizzando il pareggio dopo solo un minuto, e fu sempre lui a regalare un uomo agli avversari nella controversa prima partita di ritorno. La fitta coltre di nebbia che scese sul campo, quel 9 novembre del 1988, dovette sembrare una specie di segno divino. Savicevic aveva segnato un goal dei suoi, da Genio; il Milan perdeva, e a Virdis erano saltati i nervi: rimediò l’espulsione, appena tre minuti prima dell’interruzione della partita. Quando l’arbitro Pauly sospese il match, Virdis era già sotto la doccia. Strana inversione, per chi era solito giocare solo finali di partita. In tutto quell’anno, infatti, Virdis tornò all’antico; ai tempi in cui, a sedici anni nella Nuorese, entrava nell’ultima mezzora, segnando con impressionante regolarità. Una specie di Montella ante litteram. Ma in coppa le reti dell’ariete sardo, annunciate dal doppio confronto del primo turno con il Vitocha, non furono tante. Furono pesanti, quello si, ma non tante. Il Cigno Van Basten, all’epoca la più forte punta del mondo, viaggiava ad altre medie. Ma senza il brizzolato cannoniere di Sassari, il palmares del Milan sarebbe più povero: ci volle tutta la sua caparbietà, la sua propensione allo “sgarbo” (Fiorentina e Roma ne sanno qualcosa) per riacchiappare un pareggio dopo appena un minuto. Unò-Duè. Palla al centro. Ci vediamo a Belgrado.

giovedì 11 novembre 2004

Morto Arafat


Oggi, 11 novembre 2004 è finita la lunga agonia di Yasser Arafat. E' morto questa mattina alle 03.30 all'ospedale militare Percy a Clamart, vicino Parigi, dove era ricoverato da venerdì 29 ottobre.
Dopo tredici giorni di agonia e una triste girandola di annunci e smentite sulla sua fine, il presidente palestinese ha lasciato ufficialmente la scena all'età di 75 anni, lontano dalla sua terra palestinese.
La salma del raìs sarà trasportata al Cairo, dove domani si terranno i funerali.hanno proclamato tre giorni di lutto. Sei capi di stato hanno già annunciato la loro presenza: oltre al presidente egiziano Hosni Mubarak, vi saranno il re di Giordania Abdullah II, e i presidenti di Yemen, Algeria, Sudafrica e Brasile. Arafat sarà invece sepolto sabato a Ramallah. ''Tutto avrà luogo alla Moqata, che è un simbolo perché è lì che ha vissuto'' ha dichiarato ieri il segretario della presidenza palestinese, Tayeb Abdelraihm.
Dopo l'annuncio ufficiale della morte di Arafat, l'autorità palestinese ha proclamato 40 giorni di lutto a Gaza e in Cisgiordania. A Ramallah sono state esposte le bandiere a mezz'asta. La televisione ha cominciato a diffondere versi del Corano mentre sullo sfondo appariva una foto del leader scomparso. A Gaza, i muezzin delle moschee hanno iniziato a salmodiare versi del Corano e ragazzini a bruciare copertoni per le strade. In numerose località la gente ha espresso il lutto sparando in aria.
Il dopo Arafat verrà gestito da un triumvirato, composto dal primo ministro Abu Ala (Ahmed Qurei), il segretario generale dell'Olp Abu Mazen e il presidente del Consiglio Legislativo palestinese (il parlamento) Rawhi Fattuh che oggi giurerà come nuovo presidente ad interim dell'Anp. La divisione dei poteri si è progressivamente instaurata durante i giorni della malattia di Arafat, ma e' stata formalizzata ieri.
Resta da capire cosa farà la moglie Suha, probabile depositaria dei segreti di Abu Ammar, non ultimo dei quali il luogo in cui si trova il miliardo di dollari perso di vista dal FMI, che dovrebbe essere nelle casse dell'ANP, ma non c'è.
Terremo d'occhio Suha, perché, a nostro avviso, molte delle strade apparentemente senza uscita del problema Israelo-Palestinese passano per lei.


venerdì 5 novembre 2004

The Village


The Village di Shyamalan. Un film non film, destinato a far parlare. L'assoluta assenza di sceneggiatura lo rende aperto a qualsiasi commento. Questa è stata la fortuna della pellicola del regista indiano, che dopo Il Sesto Senso, acclamato da pubblico e critica come un capolavoro assoluto, ha un po' faticato a tenere il passo. A parte la bravissima Bryce Howard (la figlia di Ricky Cunningham - che pare interpreterà Grace nel secondo capitolo della trilogia di Von Trier iniziata con Dogville) il film arranca.. E' identificato come Thriller, ma Thriller non è, poiché la gestione della tensione non è gestita come dovrebbe. Ma allora, di che film si tratta? Qui è il bello: è effettivamente difficile circoscrivere la trama e lo sviluppo di essa all'interno di definizioni realmente esplicative. Quella che appare certa è una contestazione di un sistema (Americano? Occidentale?) che vede la paura come unico espediente per trovare e mantenere la serenità. Il Villaggio felice è possibile solo laddove la paura inibisca lo stimolo umano dell'allargare i propri confini. La felicità ha come prezzo l'isolamento, ma per trovarlo è necessario sacrificare tutto quanto esiste di positivo all'interno di ciò che valutiamo come negativo. Un bambino muore a causa della mancanza di medicinali facili da reperire in città, ma il consiglio degli anziani - qui allegoria di un qualsivoglia governo - sacrifica la vita del singolo innocente per la serenità comune. E' come se l'America del dopo undici settembre ricercasse la sua anima pulita, negando l'esistenza della propria metà oscura, sbarrandone la strada con dei mostri (l'Iraq?) che esistono per tutti, tranne che per il consiglio degli anziani.
Insomma, il film a noi non è piaciuto per niente. I due piani del Villaggio e della realtà circostante non vengo no di fatto mai a contatto, grazie ad espedienti talmente ovvi da sfiorare l'ironico (la cecità di Bryce, ad esempio); ma - volenti o nolenti - abbiamo discusso del film fino a notte tarda con gli amici, e abbiamo scritto tutto quanto la nostra testa ha voluto vedere. Ma è la nostra testa, non quella di Shyamalan.

giovedì 4 novembre 2004

Peach Tree Road


Era il 1968 quando il timido Reginald Dwight dismise i panni del giovane sfortunato per indossare il “costume” della Superstar del pop. Sono trentasei anni che ci sbomballa il cazzo con canzoni melense tutte uguali tra loro. Madame Tussaud gli ha dedicato una statua. Quella almeno non canta.
Quest’ultimo lavoro si presenta come deve: un disco stanco, di un personaggio pubblico che trova senso solo per i suoi eccessi da rotocalco, che non dice assolutamente nulla di nuovo. Canzonette d’amore prive di qualsiasi pretesa artistica, degne giusto come colonna sonora di fugaci rapporti in squallidi motel si susseguono senza soluzione di continuità. Il rapporto con Bernie Taupin, paragonato spesso con il binomio Battisti-Mogol, ci ha regalato perle come Rocket Man o Candle in the wind: come dire, la pubblicità di biscotti al cioccolato e una fanfara funebre per una principessa sfortunata e triste. Si sa, le affinità si attirano….


mercoledì 3 novembre 2004

The Village

Visto "The Village". Per essere un film privo di sceneggiatura, con uno spunto carino quasi completamente abortito, con un secondo tempo clamorosamente tautologico, che non mantiene le promesse del primo, non è male. Ci sono piaciuti: I costumi da tacchino rosso, il piattume del consiglio degli anziani, l'insensatezza del viaggio del bosco. Qualche scena alla Shymalayan, begli effetti sonori, qualche cosetta divertente a livello tecnico. Per il resto, un delirio di un pazzo. Mi chiedo se "Il Sesto Senso" sia stato un colpo di culo, oppure se il regista di Madras si sia rincoglionito.