martedì 27 dicembre 2005

...Mio Caro Lei....


Bene.
Si avvicina la fine di questo allucinante 2005, e si aprono davanti a me prospettive meravigliose di un 2006 incredibilmente pieno di opportunità. E meno male che ho perso un concorso da 1900 euri al mese, sennò non avrei potuto nemmeno fruire delle meraviglie che il passaggio di Saturno mi sta preparando nei prossimi due anni. Per prima cosa, sto realizzando che andrò a Corchiano, ma ci andrò in maniera pesante: Con tutti gli strumenti e i libri, di modo ché possa cominciare a lavorare sul mio intelletto come Cristo comanda. Lì Internet non ce l'ho, non ho nemmeno il telefono, quindi dovrò oragnizzarmi con un CD riscrivibile, da riempire e postare dalla biblioteca comunale, dotata di ISDN.
Porterò l'intero parco strumenti, compresi Mixer e ampli con casse. In questo modo, spero di registrare qualcosa, mentre lavoro alla stesura del testo de "Il Formaggio e i Vermi", opera rock megalomane che per ora sta solo nella testa del sottoscritto.
In più, cercherò di vedere se partirà qualche tournée, o se la musica mi regalerà qualche seppur minima soddisfazione. Rimane il problema dei soldi, che andrò a risolvere coi soliti lavoretti, ché è meglio della fabbrica di ceramica. Credo.
Che dire? Forse la famiglia che anélo non potrà venire nell'immediato. Ma pazienza.
Nel frattempo, il 2005 è ancora in vita, e il capodanno è tutto da definire. Che si farà?
-mah-

domenica 25 dicembre 2005

Lettera Aperta a Babbo Natale


Caro Santa Claus,

Non so se quest'anno io sia stato buono, oppure no. Potrei dirti di averci provato, ma un pizzico di coda di paglia ce l'avrei, a farlo. Non credo di aver fatto abbastanza. Sono stato invidioso, a volte. Altre volte sono stato egoista, quasi sempre ho ascoltato la voce della mia coscienza in maniera estetica, egoriferita.
Più passa il tempo, e più il mio senso del Natale si affievolisce. Anche se guardo spesso il cielo per vedere se per caso non passi una slitta volante, sento un magma viscido, tiepidino, tirare la mia mente giù, giù e ancora giù, tra le miserie -tutte le miserie - della gente, di tutta la gente. Quanto vorrei che in fondo al tuo sacco fosse rimasto quel po' di buon senso, da regalare ai bambini e ai loro padri. Vorrei che la tua risata fragorosa risuonasse al posto delle bombe. Vorrei credere che la colazione (con bigliettino) che ti ha lasciato mia nipote, raggiungesse qualcuno che ha fame, anche se si tratta solo di due mandarini mosci e di un paio di biscotti. Vorrei, stanotte, prendere sonno pensando ad un signore bonario, imponente e vestito tutto di rosso. Lo penserei mentre si cala dalla cappa della mia cucina, per portarmi un po' di felicità. Tornerei nel mondo dei miei giochi di bambino, dove non conoscevo solitudine o dolore. 
Santa Claus, per Natale vorrei tanto un po' di torpore esistenziale. Me lo porti? 

Hagi

martedì 20 dicembre 2005

...Ascoltando Serenata a Maria....



Dario Argento ha dichiarato in una sua intervista, parlando di 4 mosche di velluto grigio che voleva (…) raccontare come non si conoscono mai veramente gli altri, non puoi conoscerli dentro: i protagonisti si sono sposati e si sono amati però lui di lei non ha capito niente, non sa nulla di lei[1].

In certe occasioni, si ha l’impressione di comprendere appieno i sentimenti di chi ci sta davanti, ma non ci si rende conto che in realtà sono proiezioni nostre, sempre. Anche quando non ci pensiamo.
Ci sono dei momenti in cui mi vieni alla mente prepotentemente, e questo accade generalmente quando mi metto a suonare la chitarra.

Sono assalito da un desiderio pulsante di prendere il cellulare e telefonarti, dirti che comunque ti voglio bene, anche se le contingenze non hanno permesso un rapporto sereno.

Poi, però, non lo faccio. Sai perché? Perché non capiresti il senso del discorso. Ma avresti l’arroganza non tanto di negare questo dato di fatto, ma di crederlo davvero, visceralmente. E assumeresti quel tono di chi sa benissimo qual è l’ordine delle cose, e si domanda come sia possibile che la persona che ha davanti non abbia la medesima facilità di comprensione.

Diventeresti spocchiosa, cattivella, con quella pazienza che il padre rassegnato offre al figlio un po’ cretino.

E’ sempre stato così, ed il mio torto maggiore, la colpa che non riuscirò mai  a perdonarmi, è di non aver tirato il morso quando era il momento. Di aver dimenticato che il rispetto va guadagnato con perseveranza, che non  va dato per scontato, solo per un cognome diverso, o per attitudini particolari.

Ti ho lasciata fare. Ho provato a “capirti”, calpestando me stesso, le mie pulsioni, i miei desideri, per poi sentirmi dare dell’egoista, del ragazzino, ed io lì, dietro, a prendermi tutti questi pesci in faccia, per amore.

Non ho capito niente di te, ci ho provato nella maniera sbagliata, e ti ho persa. Ho perso la tua considerazione, guadagnandomi quella di strani animaletti simpatici, cui ho imparato a voler bene, più per compiacerti che altro, e che mi interessavano in maniera relativa.

E nel frattempo tu eri chissà dove, ad aspettare un improbabile principe azzurro, mentre mi chiamavi per non dirmi niente, mentre mentivi a te stessa dicendoti che volevi vedermi, rimuginando non tanto sul senso di quelle parole, quanto sui tuoi pensieri che vagano, privi di freno, alla ricerca di un orgasmo che duri tutta una vita. E che non esiste.


[1] Dario Argento, in Antonio Tentori, Profonde Tenebre. Il cinema Thrilling Italiano 1962-1982, Granata Press, Bologna, 1992, Pagg. 33-34


Riflessioni delle 17 - ché la dice lunga.


E' sera, anche se sono solo le cinque del pomeriggio. Ho appena sostenuto un concorso preso un ente pubblico. Il primo andò malissimo. Questo è andato male. Un miglioramento c'è stato. Non so se basterà a salvare l'onore mio, ma quello di chi mi ha aiutato è al sicuro.
Penso a Saturno, alle scelte che mi aspettano, e a tutto quanto mi sarà riservato nei prossimi due anni. Penso che quando si apre il famoso portone, spesso non ce ne acorgiamo. Ora cambieranno le priorità, e laddove la casa era pratico fondamento del futuro, ora diventa abitazione mistica, interiore. Diventa il corpo, la salus mentis. Diventa voglia di riscatto intellettuale. Ho bisogno di elevarmi al di sopra di tutto ciò che è stato, di scoprire che il mondo è un posto meraviglioso in cui vivere e confrontarsi. Ho necessità di evocare l'altro me, di dargli dignità e forza. 
Abbiamo riso e scherzato. Ora è tempo di farla finita con le cazzate. é ora di tirare fuori tutto e rimuovere l'ostacolo di sempre, facendone trampolino per l'espansione di Sè. Addio, belli di casa

giovedì 15 dicembre 2005

Poche Parole

Le valutavo la schiena, accarezzandola a partire dalle belle scapole, perfettamente simmetriche, scendendo giu, fino all’inarcamento naturale offerto dalla congiunzione tra la colonna e la zona sacrale. Ogni tanto mi soffermavo sui nei, costellazioni di stelle melaniniche su un cielo di pelle dal colore della nobiltà. Dormiva?
Non sembrava. Il respiro si faceva sempre più forte, e io chiudevo gli occhi mantenendo lo stesso scenario impresso sulla retina. Le gambe lunghe, affusolate, erano sostenute dalle sole calze autoreggenti, nere, antiche, eccitanti, sbarazzine, portate con la noncuranza di chi ha la classe innata nel sangue. Sangue. Molto sangue. Invade, scalda,  sangue che sveglia Kundalini. E lei.

Apre gli occhi, due occhi grandi, dorati, che mi guardano sorridendo. La bacio, risponde ai miei baci, ha un buon odore e comincio a sfiorarla, mentre lei risponde alle mie carezze, e mi colma di un affetto eterno, immobile, sereno. Si gira, fa caldo, e il lenzuolo si disegna in veste avvolgendo i fianchi magri e uno dei seni piccoli ed efebici. L’altro è nella mia mano, lo contiene tutto, e sento la pelle d’oca trasmettersi alla mia schiena. Le accarezzo i capelli, richiudo gli occhi, li riapro, e lei è ancora lì, sotto di me. Sento che potrei impazzire. Nella mia testa si affollano visioni, particelle di futuro e di passato formano un magma essenziale, in cui l’azione e il pensiero sono una cosa sola. Cerco di formulare, di elaborare. Niente. I pensieri non diventano parole, ma baci, carezze, ritmo. Ne voglio ancora, è l’unica cosa spiegabile a parole che mi viene.

Com’è bella. La guardo, la riguardo.  Valuto. Penso. Sogno.

L’ambiente intorno a me pulsa al ritmo del mio cuore impazzito, sento di poter colmare le distanze metafisiche, di cavalcare l’onda assassina di mille orgasmi come quello che mi ha appena schiantato il cuore.

-“Io ti ucciderò”, le diceva sempre sorridendo. Fu quello l’ultimo pensiero, mentre una lacrima di gioia scendeva dall’occhio destro – ancora sorridente - appeso al soffitto.

Non parlava mai, durante un amplesso. Sapeva che avrebbe potuto sempre essere l’ultimo.


martedì 13 dicembre 2005

Delirium Mortis


Oggi mi regalerò qualche pensiero sulla precarietà.

L'esperienza della perdita.
La sperimentazione dell'abbandono.
La fede. L'agnosticismo.
L'amore.
Paura. Paura. Paura.
baci

sabato 10 dicembre 2005

Casa, Dolce Casa.......


Ora vi racconto come mai non riesco più a scrivere.
La dimensione del blog si colloca a metà strada tra un diario e un foglio pubblico. Si può pensare questo mezzo di comunicazione, quindi, come un punto di intersezione tra la sfera del pubblico e quella del privato. Un po' come la derìva privatistica intrapresa dal potere pubblico, con la trasformazione operata - nel corso degli anni novanta del novecento - dal pubblico potere, quando si è operato il passaggio dall'impiego per nomina alla contrattazione collettiva.
In questo periodo, la sfera del pubblico - quella che interessa a me - ha concesso terreno al privatistico.
Ora, il modello è anche culturale, oltre che giuridico. E così, lo spettacolo, l'informazione, l'arte, l'osservazione politica e mediatica vengono giudicate non più da un 'intelligenza collettiva astratta, bensì da tante intelligenze individuali - concretissime. Mi riprometto tutti i giorni di non fare massa critica in questo sistema che non condivido (divento al limite dell'Hegeliano, di fronte alle "splendide intuizioni di tanta bella gioventù".
Forse oggi non ce la farò. In questo periodo tutto ciò che mi viene da scrivere, da dire e da commentare, ha come pietra di paragone la misera esistenza del sottoscritto. Sarà la troppa televisione, ma piuttosto che il biografismo, di norma, preferisco il silenzio.
Oggi, però, sono animato da una convinzione: il problema,  anche se di natura privata e personale, può diventare di interesse diffuso. Perché la domanda non è più "cosa sarà di me", ma è diventata:
Come cazzo mi trovo una casa?
Sono tornato a casa dei miei a fine del 2004, a causa di una congiuntura economica particolarmente sfortunata, che mi costrinse ad abbandonare la mia casetta a S. Giovanni anzitempo. Intendiamoci, le cose positive ci sono state: Mi sono laureato, grazie all'assenza di un lavoro dagli orari stritolanti, unita al cessato allarme-mantenimento seguìto al crollo delle spese di affitto , bollette ecc..
Ora, però, la casa è diventata stretta, e io devo andarmene via. Ma come?
La riforma del lavoro avviata da Amato, proseguita con Treu, Dini e completata normativamente con la riforma Biagi , ha introdotto un sistema incentrato su un'idea di flessibilità, degenerata in precaretà in meno di due anni. Il sistema previdenziale, esausto, è in via di ridisegno, mentre la realtà del lavoro autonomo non è presa in considerazione dal sistema creditizio, il quale si ostina a cercare garanzie per erogare prestiti, con la duplice e amara conseguenza di deprimere il giovane lavoratore a progetto e di amplificare la crisi percepita.
Le case in affitto (di comprarla non se ne parla nemmeno) - facendo parte dei beni a rendita, hanno dei prezzi inumani, considerando che un tetto sopra la propria testa in autonomia dovrebbe essere un diritto e non un lusso. D'altra parte è cambiato molto anche lo scacchiere delle proprietà, rispetto agli anni sessanta e settanta. Molte case, infatti, sono affittate da persone che integrano uno stipendio eroso dall'impennata dei prezze del dopo-euro, per poter continuare ad avere un tenore di vita decente. E quando dico decente, intendo proprio questo. "Non indecente". Parlo di chi ha una famiglia, con costi di cibo, vestiario, istruzione e indotti vari. Parlo della famiglia-tipo, che oggi deve contare su almeno 3.00/3.500€ al mese per ottenere quanto aveva, 10 anni fa, con due milioni di stipendio. Quindi c'è anche un problema etico di soluzione difficile: L'interesse leggittimo del padrone di casa è quello di far studiare il figlio. Quello dell'inquilino è di mettere su famiglia. Nessuno, fino ad oggi, ha saputo offrire una ricetta per avvicinare le parti. Credo sia di competenza dello Stato, da un punto di vista ordinamentale.
Ora, questo è stato uno sfogo oppure una denuncia? vallo a capire: Il confine tra pubblico e privato si assottiglia sempre di più....

venerdì 9 dicembre 2005

Tre articoli sul "Trash Movie" anni '70 - Horror


Horror

La storia del cinema horror comincia, più o meno, con quella del cinema stesso. La pellicola diventa terreno di sperimentazione per l’assurdo, l’impraticabile. A partire dal Voyage dans la Lune, il cinema ci mostra quello che il teatro non può. L’arte del montaggio si va via via raffinando, assumendo il ruolo centrale che le compete sin da subito. In quest’ottica, prende piede il genere Horror: la paura fa incasso. Si parte dall’espressionista Murnau, da Fritz Lang, fino ad arrivare – ci scusiamo del salto un po’ brusco - alle star della britannica Hammer, casa di produzione che conobbe una grande fortuna negli anni cinquanta (Peter Cushing, Boris Karloff, Béla Lugosi, Cristopher Lee) e Sessanta (con la consacrazione del grande Vincent Price). La battuta d’arresto della casa di produzione è per certi versi degna di attenzione. La straordinaria vena creativa si esaurisce, non riuscendo a tenere il passo coi tempi: lo si vede in una delle ultime opere marchiate Hammer: La leggenda dei sette vampiri d’oro; un tentativo di equilibrismo, prevedibilmente naufragato, di conciliare le atmosfere dell’horror britannico con quelle dei film di Kung Fu, a quei tempi molto apprezzati dagli spettatori. Le atmosfere gotiche, i decadenti castelli immaginati da Poe e immortalati da Fisher cedono il passo ad idee nuove: mostri che macellano un gruppo di ragazzi in una scampagnata, mostri che entrano nei sogni, mostri che uccidono solo ad Halloween. Il telefono, l’automobile e altri oggetti propri della realtà contingente, diventano strumenti di terrore.  E’ l’orrore ai giorni nostri, dove il sangue a fiotti sostituisce la solennità dell’interpretazione teatrale. Nasce lo splatter, genere che ha avuto negli anni ottanta e novanta il suo apice. E in Italia? Ci sono maestri del genere, apprezzati anche oltreoceano, sia nella regia che negli effetti speciali. Dario Argento e Lucio Fulci tra i primi, Sergio Stivaletti e Carlo Rambaldi tra i secondi. Il provincialismo espresso nel poliziesco e nel Thriller non è presente nell’Horror. Anche nei casi (numerosi) in cui si sceglie l’Italia come ambientazione, il fattore territoriale finisce per contare poco, se facciamo un eccezione per i due Horror Padani di Pupi Avati. Nel tipico film dell’orrore, infatti, la lotta tra bene e male è essenzialmente la battaglia contro il maligno, temuto a tutte le latitudini, sia esso rappresentato da streghe, dèmoni, mostri. Il male può colpirti sempre, dovunque. Non lo si vede, e quando ciò accade, è troppo tardi. Gli estimatori del film horror hanno molto materiale di riferimento. A parte le atmosfere Hammeriane già citate, c’è una florida filmografia, che copre tutte le aree della paura umana. I mostri di retaggio del romanzo romantico e decadente ottocentesco sono sostituiti da Jason, Freddy Krueger, Michael Myers, Leatherface. I sinistri manieri nelle cui viscere Vincent Price nascondeva orrendi segreti si trasformano in case moderne, in cui può andar via la luce, scatenando terribili massacri.  Per quanto attiene alla sfera italiana, oltre a Dario Argento e Pupi Avati, di cui abbiamo già parlato nel numero scorso, il nome di riferimento per quegli anni è Lucio Fulci. Maestro del genere, apprezzato, come già detto, anche oltreoceano, è autore di veri e propri capolavori; a parte Non si Sevizia un Paperino, afferente più al thriller e per questo trattato nell’articolo precedente, è degno di nota Sette Note in Nero, dove, con stile totalmente personale e mediante una sceneggiatura articolata e ben congegnata, riesce a tessere una storia in cui il senso temporale viene sovvertito, la percezione diventa vissuto, e il vissuto spiega la percezione. Il paranormale si infiltra nel quotidiano, fondendosi in un clima del tutto particolare e unico. La definizione horror, tuttavia, va un po’ stretta a quest’opera: se è vero che il soprannaturale la fa da padrone, è altrettanto vero che manca il “cattivissimo”, il mostro. L’uomo claudicante che murerà viva Virginia, è un’ombra non definita, sulla cui identità gira quasi l’intero impianto del film. Suspiria e Inferno, entrambi di Dario Argento, sono i due Horror italiani per antonomasia; Argento esce dal Thriller, e riesce a creare atmosfere plumbee e cariche di surrealismo gotico persino in un comune appartamento. Non rinuncia tuttavia ad allestimenti e luci inquietanti: in Suspiria, l’accademia di Danza di Friburgo nasconde un terribile segreto; in Inferno un vecchio palazzo risulta essere una dimora alchemica, costruita da un architetto-alchimista di nome Varelli, per la Madre delle Tenebre. Il genere, insomma, negli anni settanta comincia a prendere piede. Chiuso all’epoca dal Thrilling all’Italiana, conoscerà uno sviluppo più tardo, negli ottanta, con testimoni importanti. Su tutti, Michele Soavi, che con una fertile produzione, tra cui è degno di nota il premiato Deliria terrà alto il nome del cinema horror italiano. Ma sono altri anni, altri tempi. Un’altra storia, insomma.

Tre articoli sul "Trash Movie" anni '70 - Kung Fu


Cinque dita di Violenza

Di nuovo,a bomba, su Tarantino; intanto una precisazione: è vero, abbiamo un’ammirazione sperticata per il regista del Tennessee, ma per motivi totalmente egoistici; la sua voracità totalmente priva di selezione, ha una naturale affinità con intere generazioni, che hanno ingurgitato qualsiasi cosa trasmessa da una televisione a cavallo tra il pubblico e il privato, dove il monopolio di stato dell’etere, almeno in Italia, cominciava appena ad essere messo in discussione. E così, si passavano ore ed ore di fronte allo schermo. Si alternavano Jeeg il robot d’acciaio con SamuraiSupercar con Megaloman e via discorrendo. Intere generazioni prendevano le misure con un certo stile di ripresa, quello delle produzioni passate alla storia come “di serie B”. Tra queste, un posto d’onore lo occupano senz’altro le pellicole orientali degli anni 70’, quelle che nel nostro paese venivano colloquialmente chiamate “Film di Kung Fu”. Erano, per intenderci, quelle serie ininterrotte di miagolii e botte, che ci facevano segare il manico della scopa (se era di legno) della mamma per costuire un Nunchako. Funzionava così: si segava via metà scopa, ottenendo due pezzi di legno di circa 25 centimetri l’uno. Si piantava un chiodo ricurvo su ciascuna delle parti che infine si legavano l’un l’altra con circa 5 cm di spago. Una volta occultati i resti della scopa, si poteva andare a fracassarsi il setto nasale, cercando di far roteare vorticosamente la nostra arma tremenda sotto le ascelle. I Films di arti marziali conobbero una grande fortuna negli anni settanta, inserendosi- in occidente -  nello spazio che gli “spaghetti western” stavano abbandonando. Originari soprattutto di Hong-Kong, dove ancopra oggi esistono sale cinematografiche che proiettano solo pellicole del genere, questi films invasero gli prima gli Stati Uniti, dove dapprima conobbero grande successo, poi vennero adderittura cooprodotti.


Un po’ di storia – Il genere di combattimento a mani nude è cosa relativamente recente; se infatti le tematiche dei films di spadaccini (oggi tornati molto in voga – vedi La tigre e il Dragone o Hero) affondano le radici nell’opera cinese, i combattimenti a mani nude si fanno risalire agli anni quaranta, per mano di Kwan Tak Hing, personaggio praticamente sconosciuto in occidente. Erano pellicole in cui le coreografie venivano curate dagli stessi attori. Per il film “Made in Hong Kong”, così come lo conosciamo, dovranno passare altri venticinque anni di trasformazioni: storie al limite del mitico come quella del maestro Wong Fei Hung, personaggio storico-mitico incarnato in tantissimi films degli anni 40’, cederanno il passo a nuovi caratteri, come Wang Yu, impersonato da un giovane Bruce Lee in un film che in Italia è arrivato come “Con una mano ti rompo, con due piedi ti spezzo”. Ed è con Bruce Lee che il cerchio trova la sua quadratura; il nome noto a tutti, l’urlo conosciuto in tutto il mondo; il trait d’union tra Oriente e Occidente. I suoi film sul ciclo di Chen sono stati visti da tutti (quello ambientato in Italia, L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente vede anche un giovane Chuck-“Walker Texas Ranger”-Norris, prima avvisaglia dell’interesse statunitense per il genere, sublimato nella produzione Warner Bros del 1973 I tre dell’Operazione Drago). L’aura di mito che circonda Lee è data da diversi aspetti. Un po’ la poca chiarezza sulle circostanze della sua morte, un po’ per l’uscita de L’ultimo combattimento di Chen, posteriore di cinque anni la sua morte, e portata a termine con una controfigura, il personaggio Lee è stato messo in quel limbo tra storia e mito che è proprio di pochissimi personaggi dello spettacolo, quale Bruce Lee – è bene non dimenticarlo – era.

E in Italia? – Verso la metà degli anni settanta, come già accennato, il filone spaghetti western segna il passo: Con il ciclo di Trinità, ad esempio, la matrice violenta, sanguinaria e sudata lascia spazio ad una lettura più scanzonata, fatta più di cazzotti che di sparatorie, che farà la fortuna della coppia Spencer-Hill. Nel frattempo, era il 1973, esce quello che è definito l’antesignano del genere, Cinque dita di Violenza, di Cheng Chang Ho. Il successo che riscuote è clamoroso, e sulla sua scia vengono importate altre pellicole, i cui titoli vengono furbescamente tradotti Le quattro dita della furia, il già citato Con una mano ti rompo, con due piedi ti spezzo e La morte nella mano (quest’ultimo con Wang Yu, icona del genere). Ma anche i registi di casa nostra si cimenteranno nel genere, sfruttando l’esperienza maturata nel western. Ne usciranno piccole perle, come Il mio nome è Shangai Joe di Mario Caiano, violentissimo mix tra generi in cui spicca per ferocia Klaus Kinski; oppure tutta la costellazione di films al limite della parodia come Storia di Karate, Pugni e Fagioli di Tonino Ricci o Tutti per uno…Botte per tutti di Bruno Corbucci, Là dove non batte il sole, con Lee van Cleef. Per concludere, una citazione d’obbligo (anche se non propriamente a tema): Ku Fu? Dalla Sicilia con furore, dove Franco e Ciccio parodiano il genere.

Tre articoli sul "Trash Movie" anni '70 - Poliziesco


Il Poliziottesco italiano
Ci voleva Venezia per creare un percorso cinematografico su quello che viene comunemente chiamato Trash? Forse no; certo, Tarantino che posa felice come un adolescente promosso a giugno accanto ad una sbigottita Barbara Bouchet, ha dato la scossa necessaria, soprattutto per il suo dichiarato amore per il genere. In interviste precedenti, infatti, l’attuale Guru di Hollywood si è spesso sperticato in lodi su alcune pellicole italiane, cannibalizzate nei suoi più noti capolavori. Siamo quindi tutti contenti che commissari duri e puri, sia con gli occhi di ghiaccio di Maurizio Merli sia con la carica umana di Philippe Leroy abbiano in questi giorni il giusto tributo di popolarità. Film come Milano Calibro 9, con un inedito Gastone Moschin noir, o tutta la lunga serie del commissario Tanzi (interpretato dal mai abbastanza compianto Maurizio Merli) che lo vede agire più o meno in tutta Italia: da Napoli che diventa violenta, a Roma, vissuta A mano armata.
Il genere ebbe una grande fortuna negli anni settanta. Erano gli anni della rinascita delle sale di quartiere, dello spettro del terrorismo politico, delle rapine e dei sequestri di persona. Una realtà difficile, come le cronache del tempo la descrivono, con tante analogie con i tempi  di oggi, ma con una differenza sostanziale: la natura locale del fenomeno. Non un terrorismo su scala mondiale, ma di stampo regionale; non pellicole estere, ma una prolifica e preponderante produzione nazionale. Su tutto, l’ombra della criminalità dilagante, e la crescente frustrazione di uno Stato non in grado di sostenere lo scontro. A meno di singoli individui, paladini  al limite del giustizialismo, che spesso finiscono per combattere il male con le sue stesse armi.
Scene di violenza a volte inaudita, quindi, offrono dei sottotesti a volte sorprendenti, come la riflessione – negli anni settanta più viva che mai – sulle tensioni sociali e politiche negli anni di piombo; sul desiderio di giustizia privata, da combattere non con le inadeguate armi di una giustizia ordinaria e burocratizzata, ma con l’individuale rispetto per gli altri e per i più deboli. Certo, è facile giungere a conclusioni di questo tipo dopo trent’anni, con una società profondamente cambiata e con tutt’altro ordine di problemi; d’altra parte, però, lo spirito collettivo di un’epoca può essere osservato con il necessario distacco solo da chi non lo vive più. Ciò che rimane è la perizia tecnica con cui venivano girate alcune sequenze: gli inseguimenti e le sparatorie hanno fatto scula in tutto il mondo, e alcuni personaggi hanno una caratterizzazione profonda e geniale: su tutti il Gobbo di Roma, interpretato da Tomas Milian, creato da Umberto Lenzi. Inoltre, come non citare le claustrofobiche scene di un sadismo parossistico, tremendo: la scena della villa in Milano Odia: La polizia non può sparare, in questo senso, è tra le più agghiaccianti mai girate; e Tarantino, nel girare a sequenza della tortura al poliziotto nelle Iene, doveva averla ben presente. Almeno a noi così è sembrato....

Prossimi Spettacoli cui parteciperò



 Tanto per cominciare, con INCANTASTORIE (http://www.incantastorie.it) presso:
Auditorium delle Fornaci

15 dicembre
Via delle Fornaci, 161, Roma 
10€ 
ore 21.00
Prenotazione: info@incantastorie.it
Poi:

Come tutti i periodi natalizi, suonerò per l'Associazione Marco Taschler (www.acmt.it): il 7 ho suonato presso la Basilica di S.Lorenzo, mentre il 20 suonerò presso S. Salvatore in Lauro. Ingresso Gratuito.

La Jam Session Etnica è in via di definizione. Forse per febbraio al Metaverso, ci sarà qualche sorpresa. Aspetto poi sviluppi sull'uscita del disco di Amalia Gré, e novità dalla Piccola Banda Ikona. Per novità, www.stefanosaletti.it


lunedì 5 dicembre 2005

Novità? O non-novità?


Oggi inizia una nuova settimana. Quella che si è conclusa ieri è stata da dimenticare. Anzi, no. Non dimenticare MAI certe cose, può aiutare a leggere il romanzo della propria vita in maniera sempre più creativa. Ahimé, lo dico per quei pochissimi che seguono questo Blog, sto per scrivere un intervento incline a un facile biografismo, e sento sfiorarmi lo Spiritus Constantini, quel senso di superpotenza che acchiappa allo stomaco il minus habens trasformandolo in Arbiter Elegantiarum.
In poche parole, significa che sto per scrivere cazzate, tipo quelle che un coglione qualsiasi - di quelli orbitanti intorno a Cinecittà - regala agli amici del bar sotto lo sguardo di una telecamera che sta solo nella testa sua.
Quanto all'uso del latino, ricordatevi che sono Laziale, e Il "Lotitese" mi appartiene. Passiamo oltre.
Spesso mi trovo a commentare situazioni, fa parte della missione che mi sono dato; quando mi trovo a farlo, cerco sempre di elevarmi dal piano delle contingenze che sono oggetto della mia analisi. Ci si può elevare in tantissimi modi, quello più consono al mio modo di essere è l'esaltazione dell'onestà.
Mi piace vedermi come una specie di "Paladino senza macchia e senza paura", che magari lotta contro i mulini a vento, ma di cui non è mai in dubbio né la specchiata onestà - pubblica e privata - né la propensione alla giustizia.
C'è un momento nella vita in cui tutti noi siamo chiamati a guardarci dentro. C'è qualcosa di peggio della disonestà? C'è.
E' la disonestà inutile, priva di quel germe di grandezza sempre presente nel male. E' il saper approfittare di situazioni di vantaggio, senza mai farsi cogliere di sorpresa. Parlo di quando le cose "vanno come devono andare".
E' un sistema che va contro la vita vissuta, intesa come quell'insieme di sorprese, coincidenze, imprevisti, errori e vittorie che costituisce il sale, il Ras della vita esperita.
Io amo la vita, a volte vorrei amarla di meno. Vero è che - a quanto pare - lei ama molto me. Quindi toccherà rimboccarci le maniche, e vedere che mi riserva Saturno, di qui ai prossimi tre anni.
Morire si deve, sapere quando non ci è dato, quindi, in alto i cuori, e avanti così. Anzi,  Sursum Corda. Alla faccia degli Assiro-Babilonesi.